sabato 27 dicembre 2008

Abraxas



Ricordo che pioveva forte. Nel mio letto, nel buio completo, il rumore delle gocce contro i vetri mi cullava come una dolce nenia. Poi improvvisamente si alzò un vento forte, ululante, e non sentii più lo scrosciare potente dell'acqua.
Mi addormentai profondamente e al mio risveglio una strana luce purpurea filtrava attraverso il sottile spazio tra le due pesanti tende, davanti alla finestra.
Pensai fosse mattino ma la sveglia sul comodino mi diceva che sbagliavo: mancavano ancora diverse ore prima dell'alba. Mi alzai e andai a scostare le tende: neve.
D'impulso afferrai la maniglia ed aprii la finestra.
Tutt'attorno un'immensa distesa bianca mi circondava lasciandomi spiazzato: i prati, i tetti delle case, il mondo. Una decina di metri sotto di me il monumento scuro del cavaliere stava con la sua lancia protesa verso il cosmo. Tutto era candido e silenzioso.
Dal cielo rossastro cadevano copiosi dei grossi fiocchi gelidi. Il vento mi sbuffava in faccia così violento e impetuoso da sembrare una lama che mi tagliuzzasse di continuo gli zigomi. Nonostante questa brutta sensazione l'atmosfera surreale della tormenta mi rapì gettandomi in uno stato che potrei definire di trance.
Feci, quasi senza volerlo, due passi avanti, uscendo sul balcone scalzo e in pigiama, ad afferrare la ringhiera gelida. Così, completamente vulnerabile ed esposto all'inverno, mi ritrovai a fissare nel vuoto quella specie di cascata di ghiaccio.
Potevo sentire il rumore d'ogni fiocco che cadeva al suolo, sullo strato di neve già depositata. Sul momento la cosa mi parve assolutamente naturale.
Una folata più gelida delle altre mi scosse un po' e pensai di rientrare e chiudere la finestra per tornare al caldo del mio riposo. Scoprii però con stupore di non potermi muovere. Fu una sensazione terribile: ordinavo ai miei arti un'azione ed essi si rifiutavano di obbedirmi. Ero paralizzato in quella posizione, come se i palmi delle mie mani fossero saldati al metallo gelido della balconata e le piante dei miei piedi incollate al granito del pavimento.
Mi concentrai pensando che la situazione mi stesse soggiogando e tutto fosse dovuto alla mia sola suggestione. Così mi rilassai il più possibile e tentai ancora di ritrarmi. Di nuovo non ottenni niente.
La paura si fece mia padrona. Mi pentii di avere scelto di vivere da solo in una casa tanto grande e solitaria. Ancor di più mi maledissi per aver preso come mia stanza da letto la più alta del palazzo.
A circa un centinaio di metri però, potevo vedere la casa vicina. Non sapevo chi ci vivesse ma parecchie volte, a tarda sera, avevo visto le finestre illuminate e delle ombre muoversi dietro le tende.
Mi stupii in verità (sebbene quello non fosse il momento più adatto) di come in diversi mesi nella mia nuova abitazione, non avessi mai avuto occasione di vedere i miei vicini.
Scacciai quel dubbio inutile e pensai che se avessi gridato abbastanza forte, in quella notte così silenziosa, avrei certo potuto svegliarli per chiedere loro aiuto.
Dunque trassi un profondo respiro e spalancai la bocca pronto a produrre l'urlo più forte che mai avessi fatto in vita. Questa volta andò anche peggio: dalla mia gola non usci alcun suono!
Non perché fossi improvvisamente diventato rauco. Era come se la voce mi nascesse nello stomaco ma si spegnesse prima di poter uscire fuori.
Ero perciò immobilizzato, solo ed incapace di chiedere aiuto. Ero ormai terrorizzato dalla possibilità di rimanere così per le restanti ore della notte e di morire assiderato in quella posizione tanto ridicola.
La tormenta intanto avanzava sempre più devastante e se non fossi stato così impalato avrei potuto anche svenire per il gelo. Tremavo in maniera convulsa dando il petto al vento.
Doveva essere passata più di un'ora dal momento sventurato in cui decisi di abbandonare il mio riposo. Iniziai a sentire la fatica ed il dolore per via di quelle condizioni tanto ostili alle quali pure non avevo modo di sottrarmi. La mia mente inizio a vacillare pericolosamente. Persi lucidità cominciando nel profondo a sospettare che si trattasse solo di un incubo. Il dolore svanì così come era arrivato e i miei occhi si chiusero lentamente senza che io potessi oppormi.
Non so dire quanto tempo rimasi incosciente ma sono certo che fu quella risata agghiacciante a risvegliarmi.
Quando riaprii faticosamente gli occhi vidi una macchia scura sul muro della casa di fronte. Osservando meglio capii che si trattava di una persona sul balcone; doveva essere certamente il mio misterioso vicino.
Le mie dita erano in parte congelate, i miei vestiti zuppi di acqua gelida, la mia pelle una lastra di vetro. Non c'è da meravigliarsi se a quella vista mi sentii sollevato e mi considerai ormai in salvo.
Mi sbagliavo enormemente.
Sebbene fra noi due ci fossero oltre cento metri di distanza ero sicuro che guardasse nella mia direzione e che mi avesse visto così sofferente. Quindi perché non correva in mio soccorso?
Stava semplicemente fermo, in piedi e con le mani dietro la schiena. Pensai che non avesse capito il pericolo nel quale da ore ormai mi trovavo.
Così, senza molte speranze in realtà, raccolsi le mie ultime energie per cercare di attirare la sua attenzione; respirai a fondo, mi rilassai il più possibile ed aprii la bocca. Mi meravigliai nel sentire la parola “aiuto” che usciva da me abbastanza forte perché egli potesse udirla.
All'improvviso la sua casa mi parve molto più vicina. Mi sembrò che la sua abitazione si fosse avvicinata molto alla mia. Ciò mi permise di guardarlo meglio. Indossava un abito completamente nero sul quale la neve che continuava a cadere pareva non volersi fermare. Il suo volto era di una vecchiaia innaturale e solcato da numerose rughe che gli conferivano un'espressione per niente rassicurante.
Dunque colsi senza possibilità di errore la sua risposta al mio appello: egli sorrise.
Lo fece in un modo tanto orrendo e cinico da farmi intendere quanto piacere producesse in lui lo spettacolo della mia agonia.
Di colpo l'edificio di fronte torno al suo posto, lontano. Il balcone era vuoto.
Trasalii quando percepii un rumore alla mia destra, una sorta di fruscio. Voltando la testa di lato, ma sempre inchiodato al mio posto, trovai l'uomo di prima al mio fianco.
Conscio ormai di non essere in un qualche sogno spaventoso, non seppi spiegarmi la sua comparsa improvvisa in casa mia. In pochi istanti non poteva certo aver percorso tutta quella strada.
Puro terrore fu quello che provai quando, sempre sorridendo in quel suo modo odioso, mi mise una mano sulla spalla. Lo sentii penetrare aggressivamente nella mia testa e parlarmi con mille voci differenti allo stesso momento senza schiudere le labbra. Le sue parole però non avevano alcun senso perché pronunciate in una lingua a me ignota o forse inesistente tra gli uomini.
A quel punto, con la mano libera, indicò un punto in basso.
Guardai dove voleva e mi accorsi di trovarmi con i piedi esattamente al centro di due cerchi concentrici emananti una luce bluastra molto intensa. Tra un cerchio e l'altro notai una serie di simboli che mai prima avevo visto, anch'essi luminosi.
Allora alzò la mano dal mio corpo e finalmente fui libero di muovermi.
Una gioia profonda mi pervase e, lasciando finalmente la ringhiera, lo abbracciai ringraziandolo di tutto cuore.
Il mio entusiasmo però non durò che pochi attimi. Incredibilmente, infatti, mi sentii sollevare dal pavimento e fluttuare nell'aria.
L'essere d'innanzi a me (perché, ora ne sono certo, non era umano) teneva le braccia stese lungo i fianchi e smise infine di sorridere. Muoveva le labbra sommessamente ma continuamente sussurrando parole nella lingua sconosciuta che già aveva usato poco prima dentro di me.
Ad ogni suono emesso io mi sollevavo un poco di più nell'aria, incapace di oppormi a quella forza maligna. Poi iniziai a muovermi verso l'esterno e, oltrepassata la balaustra, compresi d'un tratto le sue intenzioni ed invocai la sua pietà tra le lacrime. Ma egli prosegui nel suo mormorio, incurante delle mie implorazioni.
Quando fui sospeso in volo sulla statua del cavaliere, in mezzo al cortile, si udì un lamento più forte , agghiacciante; un istante dopo precipitai nel vuoto.
L'ultimo ricordo che ho è il mio sangue scarlatto che si sparse sulla neve candida, al suolo, dopo che la lancia di pietra del monumento mi trafisse il cuore, ferendomi a morte.
Da quel momento (non so dire quanto tempo sia passato) sono qui su questa spiaggia. Molti altri sono seduti sulla ghiaia umida e nerastra e fissano il mare. Il loro silenzio trasuda sofferenza e m'impedisce d'interrogarli sulle loro sventure; dentro di me però sento che ad accomunarci tutti è la violenza con cui la morte ci ha sorpresi.
Uno di loro, poco dopo essermi risvegliato qui, mi venne incontro porgendomi carta, penna ed una bottiglia di vetro trasparente. Lo interrogai chiedendogli dove ci trovassimo e chi egli fosse ma scosse semplicemente la testa e si voltò tornando a sedersi in contemplazione.
Il cielo è sempre nero e carico di nubi e le acque sono in perenne burrasca anche se non piove mai.
Non so se questo sia l'inferno ma voglio affidare poeticamente questo manoscritto alle spume salate. Spero che che le mie memorie giungano nel mondo dei vivi, che un giorno qualcuno possa leggere della mia incredibile e terribile fine; forse questo, in qualche modo, servirà a portarmi via da qui e a farmi trovare finalmente pace.
...Continua?