sabato 14 novembre 2009

Un pezzo d'antiquariato


Gli specchi non sono amichevoli. E nemmeno rassicuranti. Non per le immagini che rimandano. Il più delle volte, la gente che ci si riflette è troppo distratta dal rumore del mondo per riuscire davvero ad accettare quel che vede in quelle lastre di vetro e argento.
No, davvero. Il vero pericolo degli specchi non è in quello che rilasciano. Ma in quello che trattengono.
Per quel che riesco a ricordare l'antica specchiera di legno scuro è sempre stata in casa nostra. Solenne, a dispetto della sua mole non proprio monumentale, ci guardava vivere dal suo posto, al fondo del lungo corridoio cieco.
Certo i decenni l'avevano pur segnata: i tre scompartimenti nella parte inferiore avevano perso (chissà quando e chissà come) i loro sportelli, mostrando senza pudore il loro ventre chiaro e puzzolente di muffa. Pendeva poi un po' sul lato destro, come una vecchia stanca che si appoggiasse al muro per riprendere fiato.
E naturalmente lo specchio. Lo specchio era lungo circa un metro, in modo che quando ci si mettesse davanti inquadrasse non più che dalla vita alla testa di una persona. Il fondo era tutto puntinato di scuro e verso le parti periferiche alcune macchie più estese lo avevano reso, in quelle aree, del tutto inservibile.
Una volta, da ragazzino, chiesi a mio padre perché semplicemente non se ne sbarazzasse per comprarne uno nuovo, magari più ampio e funzionale.
Mi guardò come se lo avessi appena avvisato della mia imminente volontà di sposare una mucca da latte. Poi fece un gran sospiro e, con l'aria di chi sta cercando di sopprimere un qualche istinto violento, mi spiegò che quel mobile era stato dato a mia nonna da sua madre, che l'aveva ricevuto a sua volta da sua madre e così via...
Insomma, stando a mio padre, quella vecchia carcassa avrebbe potuto avere tranquillamente più di duecento anni. Così quando i miei genitori mi lasciarono per sempre, la casa passo a me e con essa il vecchio specchio.
Tutto accadde in una notte, la più adatta ovviamente.
Tanto per stare in compagnia decisi di invitare un vecchio amico a cena.
Il sole, che non era esattamente sorto al mattino, stabilì di concludere presto quella sua giornata malata. Così, prima che me ne rendessi conto, la notte cadde come un unico grumo di sangue nerastro, abbracciando in un velo di nebbia gelata la casa e il bosco tutt'intorno.
Di lì a breve giunse il mio invitato. Cenammo con calma e abbondantemente, senza far attenzione alle bottiglie di vino nero che ci lasciavamo dietro, una dopo l'altra.
Finita la cena ci spostammo in salotto per bere un digestivo e fumare dei sigari che il mio amico aveva portato con sé. Restammo parecchio a parlare di ricordi e speranze disattese, di dove la vita avesse portato, nostro malgrado, ciascuno di noi, così lontano da dove avevamo pianificato.
Quando la pendola sopra le nostre teste batté un solo, secco rintocco il mio ospite si alzò in piedi di scatto, in un movimento così inaspettato da farmi trasalire.
-Io so d'un rituale- disse- da compiere questa notte, tra mezz'ora esatta.
-Un rituale?- mi incuriosii- Di che tipo?
-Una volta all'anno, in questa notte, i morti ci possono parlare.
Pensai subito che l'alcol fosse il vero responsabile di quell'affermazione. Guardando bene il mio compagno però, mi sembrò che fosse piuttosto lucido, così lo invitati a proseguire.
-Sembra che le anime dei defunti aspettino questa notte per tornare a parlare con i vivi. Per fare degli scambi...
-Che genere di scambi?
-Loro possono allungare la vita terrena. In cambio di qualcosa per sé.
Ero sempre stato piuttosto scettico rispetto alla possibilità di un'anima vivente in eterno quindi quel discorso mi parve privo di senso anche se in linea con la pittoresca personalità del mio invitato.
La noia mi spinse però a fargli un'altra domanda -e che cosa servirebbe per questo rituale?
-Poche cose: uno specchio abbastanza grande, tre lumini e... una goccia di sangue. Una per ognuno di noi.
Il pensiero del sangue mi orripilava non poco, anche si trattasse di una sola, misera goccia.
Ma a quel punto mi ero deciso ad andare fino in fondo così andai in cucina a recuperare tre piccoli lumini cilindrici da un armadietto e poi in bagno dove trovai un piccolo ago da siringa.
Con questi oggetti lasciammo il salotto dirigendoci verso la secolare specchiera al fondo del corridoio buio.
Raggiunto il mobile passai al mio amico i tre lumini. Lui li dispose sul pavimento a formare i vertici di un triangolo invisibile, grande abbastanza da contenerci entrambi. Il triangolo era rivolto verso lo specchio, come una sorta di freccia.
Il mio amico mi invitò a spegnere tutte le luci della casa. Lo feci prontamente e poi tornai verso di lui senza troppe difficoltà, evitando ogni ostacolo a memoria. Mi sistemai alla sua sinistra, in piedi, al centro del triangolo.
-Ora silenzio- mi intimò- è quasi il momento.
In quell'istante vidi la scena con gli occhi di un osservatore esterno e non riuscii ad evitare di trovare il tutto decisamente ridicolo. Due uomini di mezza età fermi in piedi, al buio, di fronte ad uno specchio.
Il filo dei miei pensieri fu però interrotto dal bagliore di un fiammifero con il quale il mio ospite accese il primo dei tre lumini, quello posto alle sue spalle, sul lato destro.
Poi contò sommessamente fino a sessanta, fece brillare un secondo fiammifero e si chinò per infuocare il cero alle mie spalle.
Ripeté il conteggio e infine diede luce anche al lumino davanti ai nostri piedi.
-L'ago, per favore.
Trassi il piccolo involucro sigillato dalla tasca dei pantaloni e glielo porsi.
-La tua mano.
Non senza uno sforzo di volontà sollevai la mano destra e gliela offrii, aperta e vagamente tremante.
-La sinistra.
Non obiettai e, senza capire la differenza, sollevai l'altra mano che il mio ospite si apprestò a bucare. Il pizzico che sentii sul polpastrello dell'indice mi lascio stranamente indifferente, forse perché la mancanza di luce mi aveva impedito di seguire l'operazione.
-Adesso bucherò anche la mia. Poi, quando sentirai il rintocco della pendola, non prima, verserai una goccia del tuo sangue sulla fiamma davanti a noi. Io farò esattamente lo stesso.
Annuii semplicemente. Non che potesse accorgersene. Ma il suo tono cominciò ad inquietarmi e la voce sembrava avermi del tutto abbandonato.
Così tesi l'orecchio in direzione del salotto e, appena udii il mezzo rintocco, feci esattamente come mi aveva ordinato.
Il nostro sangue cadde unito sulla fiamma senza spegnerla ma anzi alimentandola fino a farla diventare un lingua di fuoco che si innalzò fino ai nostri occhi.
Guardavo la fiamma danzare alta quanto una persona, cercando di convincermi che il mio amico si stesse prendendo in qualche modo gioco di me.
Poi un volto apparve candido nello specchio che, fino a quel momento, aveva riflesso solo il buio trafitto dall'esplosione di fuoco dal cero sul pavimento.
La fiamma tornò repentinamente alle sue dimensioni normali. Il volto cinereo, nient'altro che un cranio calvo, coperto da una sottile pellicola di epidermide, tesa come la pelle di un tamburo; gli occhi scuri e profondi come due fosse, ci guardava da dietro il vetro dello specchio.
Da dentro lo specchio.
Mi sentivo pietrificato. Un folata gelida e fetida ci avvolse, come l'alito di mille cadaveri.
Mi bastò osservare il profilo del mio amico per capire quanto inaspettato fosse per lui quell'avvenimento. Forse inizialmente aveva voluto giocare all'apprendista stregone ma la cosa era chiaramente molto lontana dal suo controllo.
Fece per arretrare e uscire dal triangolo ma una forza invisibile lo risospinse verso il centro. Allora mi scossi e lo imitai; fu come se delle mani gelide mi costringessero violentemente in avanti.
Disperato fissai il pavimento, senza il coraggio per fronteggiare il volto che ancora si stagliava nello specchio. Poi fu proprio il nostro nuovo compagno a parlare, con una voce che sembrò provenire dal fondo di un pozzo pieno d'acqua, come una sorta di gorgoglio.
-Chi turba il mio riposo?- Tuonò.
Il mio compagno di sventura non sembrò troppo intenzionato ad aprir bocca. Riguardo a me poi, le mie labbra si erano come incollate tra di loro. In bocca il sapore pastoso del terrore.
Mi costrinsi a sollevare lo sguardo senza tuttavia fissarlo direttamente su quella strana entità.
Vidi che nelle orbite cave si erano accese due fiamme di un rosso vivissimo, forse ad indicare la rabbia che quell'essere provava per via della nostra mancata risposta.
-Chi turba il mio riposo?- Ripeté la domanda in un urlo molto potente. I vetri di alcune finestre esplosero nel corridoio alle nostre spalle facendo penetrare in casa la notte bianca di ghiaccio. Nessuno di noi due si voltò a guardare. Non volevamo dare le spalle allo specchio.
Finalmente il mio amico si decise a parlare. In un sospiro pronunciò il suo nome e poi il mio.
Ci furono alcuni secondi di silenzio. Poi il volto aprì di nuovo la bocca scheletrica.
- Vi avviate alla fine del vostro percorso mortale. Siete già oltre la metà della vostra esistenza corporea. Ma io posso far vivere uno di voi per cento anni ancora.
-C-come?- Chiesi io
-Prendendomi l'altro.
Lo disse così, asciuttamente. Se non fosse stato privo di labbra e di muscoli potrei dire che avesse sorriso.
Il mio amico voltò la testa per guardarmi.
-No. Non voglio- disse- lasciaci solo andare!
-Questo non è possibile. Siete stati voi, convocandomi qui, che avete stretto il patto. Se non uno, vi avrò entrambi.
Il mio ospite vacillò. Io pensai di non aver capito bene. Uno di noi avrebbe dovuto morire. L'altro vivere ancora cento anni. Come potevo crederci?
Provai a scagliarmi contro lo specchio, con l'intenzione di distruggerlo. Ma la stessa forza che mi aveva sospinto in avanti mi costrinse anche indietro, questa volta molto più violentemente.
Il mio compagno osservò la scena. Poi, evidentemente combattuto, diede un ultimo sguardo a quello che era diventato il padrone dei nostri ultimi minuti e si rivolse a me
-Scusami- mi disse- ma non me la sento di morire questa notte.
Detto questo mi si scagliò contro con le braccia spalancate, nell'evidente intenzione di immobilizzarmi.
Io però fui più veloce di lui e, forse per via della mia bassa statura, gli sfuggii facilmente sebbene in quello spazio angusto. Mi abbassai afferrandogli le caviglie a tirai con tutta la forza che avevo. Cadde violentemente sulla schiena e, sbattendo forte il capo sul pavimento, svenne.
Ancora ansimante per l'azione guardai il corpo esanime, provando un misto di rabbia e senso di colpa.
Aveva provato a consegnarmi a quella cosa. Certo l'aveva fatto per salvare se stesso ma comunque in quel momento non riuscii a perdonarlo. Sacrificarmi per colui che aveva cercato di uccidermi era fuori questione.
Lo sollevai di peso, non senza sforzo, e lo sporsi verso lo specchio. La superficie riflettente si increspò, come fosse fatta d'acqua, il volto scheletrico divenne trasparente. Poi lasciai andare il traditore che attraversò il vetro. In un certo senso fu come se ne venisse aspirato. Quando anche i piedi, sollevatisi da terra, furono inghiottiti in una sorta di nebbia, il volto bianco riprese consistenza.
-Avete fatto la vostra scelta. Lui ora e mio. Tu vivrai un secolo ancora. Ricorda però: conserva lo specchio. Se si romperà anche tu ti unirai a me.
-Come... Un secolo?
Il volto annuì gravemente.
-Tra cento anni tornerò a reclamare un'altra anima, la tua. O quella di un altro, se vorrai vivere ancora. Se lo vorrai, avrai la vita eterna.
Detto questo il teschio scomparve e lo specchio tornò a riflettere la mia immagine per un istante. Poi le fiamme si estinsero sui ceri e persi conoscenza, nel buio.
Quando il vento freddo del mattino penetrò dai vetri infranti, mi svegliai sulle lastre di marmo del corridoio gelido. Nell'offuscamento che va dal sonno alla veglia pensai subito ad un incubo. Mi stropicciai gli occhi ma i tre lumini sul pavimento non scomparvero, né le finestre tornarono intatte.
Corsi all'ingresso e il cappotto del mio trapassato amico era appeso all'appendiabiti, dove l'avevo lasciato la sera prima. Sul tavolino del salotto i piccoli bicchieri dal liquoroso fondo nero erano due così come i mozziconi di sigaro nel posacenere a fianco, tondi etozzi come due falangi ustionate.
Non avevo sognato.
Il soprabito lo bruciai il giorno dopo. I giornali parlarono della sua scomparsa. Quando vennero ad interrogarmi dissi solo di non averne più saputo nulla dopo che, la sera della cena, mi salutò congedandosi.
Gli anni passarono e, mentre il mondo mutava rapido attorno a me e la morte mieteva il proprio paziente raccolto tra i miei conoscenti, io non invecchiai di un secondo da quella sera.
Ho compiuto centosessantanni lo scorso marzo.
Oggi è il 31 di ottobre. Di cento anni dopo. La specchiera non sta più in fondo al corridoio ma in soffitta, al riparo da ogni possibile urto.
Poco fa ho disposto tre lumini sul pavimento polveroso ai piedi del mobile, a formare un triangolo. In una tasca dei jeans ho riposto un piccolo ago epidermico, sigillato nella sua plastica blu. Nell'altra una piccola rivoltella. Mi servirà tra non molto.
La ragazza immobilizzata alla poltrona si è svegliata e mi guarda mugugnando mentre, seduto al tavolo del salotto, scrivo queste righe. Il bavaglio non le permette di urlare anche se non è troppo stretto da impedirle di respirare. Non posso permettere che soffochi.
L'ho scelta tra molte, ieri notte, sulla statale che porta in città. Tra quelle che vendevano il loro corpo mi è parsa la meno attaccata alla vita, la più priva di speranze.
Lei è giovane. Non ha vissuto un secolo e mezzo. Non sa che la vita è come una droga: più ne hai e più te ne serve, per sentire qualcosa.
La pendola ha battuto un rintocco. Lo specchio sopra le nostre teste ci attende. Sembra che ora si sia ripresa completamente. Forse non capisce, forse vorrebbe andare. Per tranquillizzarla le farò vedere la pistola. Poi le dirò che, se farà quel che voglio, la lascerò libera. Ovviamente mi dispiacerà spingerla dentro il vetro, sebbene non creda che qualcuno la piangerà mai.
E poi, come disse un mio vecchio amico una volta, non me la sento di morire questa notte.
...Continua?