venerdì 8 ottobre 2010

Una serata fredda


Camminavo sotto i portici di Piazza Vittorio. L'autunno era arrivato, una volta tanto, del tutto improvvisamente.
Pioveva di una pioggia fine che sembrava cadere in orizzontale. Mi arrivava in faccia anche lì, sotto il porticato, e mi faceva sorridere. Ho sempre amato la pioggia.
Erano forse le sei e si era fatto quasi buio.
Giunto alla fine della piazza mi alzai il bavero e attraversai la strada. Non avevo niente da fare, nessuno che mi aspettasse a casa per parlare della giornata. La Gran Madre, dall'altro lato del Po, mi guardava vestita delle sue luci esagerate. Pensai di fare ancora due passi fin là prima di buttarmi su un tram a caso.
Al centro del ponte mi fermai. Poggiai le mani sul parapetto metallico immaginando in lontananza il parco del Valentino. Il cielo era carico, per quel che potessi distinguere, di ammassi neri che non mi sembravano nuvole ma felici promesse d'inverno. Non aveva smesso di piovere un attimo da più di dieci giorni. Sperai che continuasse.
Acqua, acqua e ancora acqua. Dal cielo, per le strade, sui tetti, nei fiumi.
Il fiume, appunto. Era gonfio, potente, inarrestabile. Era torbido, d'un marrone melmoso. I detriti, portati da chissà dove, erano stati ammassati dalla corrente contro i pilastri del ponte. Da qualche giorno lo avevano chiuso al traffico. Le luci dei lampioni balugginavano nella nebbia e morivano in pallidi fasci sul pelo dell'acqua.
Chiusi gli occhi ed inspirai tutto quel che potevo. La città non c'era più. Alla mia sinistra la presenza silenziosa della collina mi proiettava altrove. Dimenticai il traffico, lo smog. Dimenticai le voci.
Mi investì, o immaginai che lo facesse, un odore di foglie cadute, morte e poi bruciate.
Ero appagato, in pace con me stesso per qualche istante.
Riaprii gli occhi e la vidi. Una mano, bianchissima, sbucava dai flutti limacciosi. Gridai. Nulla si mosse; le due strade ai miei fianchi continuavano a farsi i fatti loro.
La banchina sull'argine destro era sommersa. Non la considerai.
Di sotto intanto, dietro la mano, era comparsa una testa scura, annaspante e confusa.
Mi sporsi, sembrava un uomo. Si arenò, in qualche modo, contro qualcosa di scuro poggiato all'ultimo pilone del ponte, alla mia sinistra.
Da quel lato forse avrei avuto qualche possibilità. Decisi di scendere. La stradina sterrata che conduceva all'argine, la vidi mentre correvo sul ponte, era sommersa per metà. Non sapevo cosa avrei fatto una volta arrivato lì.
Alla fine del ponte vidi, a pochi metri, una vecchia intabarrata in uno scialle fucsia; portava a spasso un volpino candido e zuppo. S'inchiodò sul posto osservandomi stranita.
È caduto uno in acqua, le urlai. Chiami qualcuno. Sperai non fosse sorda. Non mi fermai a controllare.
Scesi scalpicciando nelle pozzanghere del sentiero ghiaioso. Inciampai e caddi a faccia in avanti, scorticandomi le mani. Mi sollevai in fretta pensando assurdamente che mi sarei perso I Simpson in TV.
L'acqua gelida mi arrivava già alle caviglie. Scrutai in quella luce incerta pensando che fosse ormai tardi.
Poi lo avvistai, avvinghiato disperatamente ad un tronco che, sotto il suo peso, si stava pericolosamente allontanando dalla base del ponte.
Il pilastro, alla mia destra, si congiungeva alla boscaglia scoscesa, di fianco alla stradina. Mi gettai tra i rovi cercando di scacciare il pensiero di tutti quei cespugli spinosi e di quel che potessero nascondere. A fatica giunsi a puntellarmi con le mani aperte sulla pietra bagnata.
Poggiai un piede tremante sul groviglio di sterpi e legna. Sembrò reggere. Ci salii sopra tenendo una mano poggiata al pilastro.
La corrente, vista da lì, mi terrorizzò. D'improvviso odiai la pioggia.
Dopo un paio di metri, sospeso su quella specie di passerella, giunsi all'estremita del tronco. Mi ci sdraiai sopra. Il poverino, dall'altra parte, mi vide e cerco di sporgersi verso di me.
Fu un errore. Percepii uno scossone sotto la pancia. Mi slanciai in avanti e gli sfiorai le dita. E questo fu tutto.
Il tronco si sganciò dal resto dei detriti. Mi ritrassi d'istinto scivolando indietro e mi ritrovai seduto sui rami bagnati, con la schiena poggiata al pilone.
Il tronco passò sotto il fornice come una zattera impazzita.
Sconvolto, non so come, risalii sul ponte. Corsi sul lato opposto e mi sporsi più che potei. Lontano, troppo lontano, itravidi una sagoma scura e inerte. Solo il vecchio albero morto.
Rimasi là, con le mani poggiate sul metallo scrostato della balconata.
Qualcuno si avvicinò da destra. Era la vecchia col suo cagnetto più candido e inzuppato di prima, mi parve.
Ho chiamato l'ambulanza, mi disse. Stanno arrivando. L'ha trovato?
La guardai per un attimo senza sapere cosa dire. Poi abbassai la testa iniziando a singhiozzare sommessamente. Le mie scarpe nuove erano piene di fango.
La vecchia mi poggiò una mano sulla spalla senza aggiungere altro.
Dalla piazza giunse un rumore di sirene.
...Continua?

martedì 14 settembre 2010

Prima che sia giorno


Era una di quelle notti invernali dal cielo terso. Una notte da meno dieci, col vento che spaccava la faccia e un'esplosione di stelle a punteggiare il cielo.
L'uomo guidava lentamente la sua lunga berlina nera. Rispettare i limiti, la prima regola.
Il finestrino leggermente abbassato aspirava fuori il filo di fumo azzurrognolo del suo cigarillo.
La tangenziale era deserta. Imboccò la rampa d'uscita per una zona industriale ormai inesistente. Restavano in piedi una mezza ciminiera rossastra e un enorme capannone cadente, dal tetto di eternit sfondato.
La puzza di concimi chimici si fece strada sottovento, da qualche campo nei dintorni. Il fetore acido gli riempì le narici e immediatamente un conato gli stritolò l'esofago. Gettò fuori il mozzicone e chiuse il finestrino.
Mentre rallentava giunsero alle sue spalle alcuni colpi ovattati. Alzò il volume della radio e proseguì indifferente.
S'infilò in una stretta strada sterrata sotto un cavalcavia. Spense i fari e proseguì per un paio di minuti. Poi i vecchi muri devastati gli sbarrarono il passo, come apparsi dal nulla. Il cemento si apriva qua e la in grosse fenditure. Le armature metalliche sbucavano dalle pareti come ossa fuoriuscite dalla carne.
Fermò l'auto e si chinò, tastando sotto il sedile. Il contatto con la canna della pistola gli passò la solita sensazione di potenza. Recuperata l'arma scese.
Guardava il portellone lucente del bagagliaio. Una scarica di colpi giungeva continua, disperata. Aprì il baule e l'uomo all'interno si immobilizzò all'istante. Era in canottiera e boxer. Ai piedi un paio di mocassini sfondati. Obeso, piccolo e con una sola striscia di capelli untuosi a contornargli la testa. Le mani, dietro la schiena, e le caviglie erano immobilizzate con diversi giri di spesso nastro adesivo. L'estremità di uno straccio appallottolato gli sbucava dalla bocca, dilatandola innaturalmente.
La luce della luna nuova era abbastanza intensa perchè l'uomo con la pistola potesse vedere la fronte del piccoletto, sudatissima nonostante la temperatura.
-Ora ascoltami bene. Adesso ti slego i piedi e poi ti faccio uscire. Se tenti di scappare ti sparo in testa. Capito?
L'interrogato annuì con convinzione ma appena l'altro gli liberò le caviglie iniziò a scalciare verso l'alto. L'uomo con la pistola fu colpito alla tempia da una pedata. Un po' rintontito, sollevò di peso il piccoletto e lo gettò sulla terra gelata ai suoi piedi. Poi gli sferrò a sua volta due calci, di punta, colpendolo al plesso solare con molta forza.
L'uomo a terra sbiancò e ritornò immobile. Quello con la pistola estrasse dal bagagliaio una pala da giardino sbeccata. Afferrò il suo ostaggio per un braccio e lo trascinò lontano dalla macchina.
-Bene, adesso che ci siamo spiegati, è ora di mettersi al lavoro.
Girò il piccoletto di schiena e gli liberò anche le mani; questa volta non ci fu nessuna reazione. Il pelato indicò soltanto lo straccio che aveva in bocca.
-Vuoi togliertelo? Ok. Ma tu mettiti a gridare - gli fece dondolare la pistola davanti al naso- e ti apro la testa in due.
Si tolse di scatto lo straccio. Fece un profondo respiro ma non urlò. Iniziò invece a tossire come una mitragliatrice e, quando riusci finalmente a fermarsi, si buttò in ginocchio.
-Per favore! Per pietà!
-Pietà? Ma quale pietà? Infame! Ci dovevi pensare prima di venderti a quelli là.
-Ma è stato per una sola volta. Mi hanno costretto e poi... Poi pensa a mia figlia. Non dico a me, ma a mia figlia!
-Fai schifo. E va bene facciamo così...
L'ometto si gettò sulle gambe del suo sequestratore abbracciandole. Quello con la pistola si ritrasse schifato.
-Non toccarmi più, merda, o ti spacco le ginocchia a palate e poi ti mollo qua a morire di freddo.
-Io volevo solo...
-Zitto. Zitto e ascolta. La pala ce l'hai, comincia a scavare. Una bella buca profonda. Deve arrivarti almeno fino all'uccello. Se quando sorge il sole non hai finito ti sparo in testa e tanti saluti. Se fai in tempo e il tuo lavoro mi soddisfa, potrei pure decidere di lasciarti andare. Hai più o meno due ore.
-Ma come... Tu vuoi che mi scavo la fossa da solo ma se sono abbastanza veloce poi non mi ci metti dentro? Ma che cazzo dici...
-Qui è come al cimitero comunale, bello. Lo sai quanti come te ne ho in lista per un loculo? Se non sei tu sarà un altro. Una bella buca mi torna sempre utile. Ma se non hai voglia di faticare facciamo prima...

Il piccoletto iniziò a battere a terra con la pala. Inizialmente sembrava che non riuscisse neanche a scalfire il suolo, ma poi ci mise più energia e cominciò a smuovere un po' di fanghiglia.
Dopo circa un'ora, mentre l'uomo con la pistola camminava avanti indietro fumando (a tratti tabacco e a tratti semplicemente la condensa del suo respiro), la buca gli arrivava poco sotto le ginocchia.
-Devi allungarla... Vabbè che sei una mezza sega, però così è troppo corta.
L'altro non diede segno di aver sentito e continuò a lavorare febbrilmente, sempre più stanco ma spinto dalla forza della speranza. O della disperazione.
I primi raggi di sole lo pietrificarono. L'uomo con la pistola si avvicinò alla fossa, quello dentro gli dava le spalle, distrutto e ricurvo sul manico della pala.
-Girati. Fammi vedere.
Lui si voltò tenendo lo sguardo basso. Le scarpe sporche di terra, le gambe nude e storte. Il sudore si alzava dalla sua schiena formando volute di vapore nell'aria gelida dell'alba.
-In effetti ti arriva proprio all'uccello.
Il piccoletto sorrise.
-Allora fammi uscire! Ti prego, sto crepando di freddo.
-Eh però... Appunto... Crepa!
Un colpo solo, in mezzo agli occhi, e il piccoletto andò giù. La pala sul suo ventre rigonfio, la schiena poggiata contro il bordo terroso.
L'assassino saltò dentro la fossa. Sistemò la pala in verticale, in un angolo. Poi afferrò il cadavere per le caviglie e lo trascinò indietro, in modo che fosse ben disteso sulla schiena.
Si arrampicò fuori. Le punte dei mocassini superavano il bordo della fossa di qualche centimetro.
L'uomo con la pistola si accese un cigarillo. Poi imbracciò la pala e inizò a riempire il buco di terra bagnata.
Guardò il morto scuotendo la testa.
-Te l'avevo detto che era troppo corta. Stronzo.
...Continua?

sabato 10 luglio 2010

Abbatti un albero, costruisci la nave


Il viaggio è cosa strana.È sogno, sentimento e poesia fino a che non viene il momento di partire. Poi ci piomba addosso con la sua straordinaria potenza, con tutta l'ansia che è capace di generare e, se non teniamo bene a mente le nostre motivazioni, in un attimo può fare paura, pietrificarci.
Credo che l'avventura, la scoperta, la conoscenza dell'impensbile bastino per mettersi sulla strada. Quello per cui non sono sufficienti è il raggiungimento della meta.
Serve un percorso che sia prima di tutto intimo, che parta dall'isolamento dei desideri per arrivare alla loro ricerca. E bisogna fare in modo di piegare gli eventi tutte le volte che si può, senza lasciare che il fiume ci porti alla deriva.
Credo, insomma, che sia bene osare prima e pensare poi, se si vuole andare da qualche parte (si tratti di chilometri, di inchiostro su una pagina o d'altro).
L'errore è nostro, fortunatamente. L'inedia uccide molto più dell'azione sbagliata. Al tentavivo fallimentare segue una lezione, spesso la rivalsa. Al nulla segue il nulla.
Ciò che più conta è la curiosità, l'esplorazione. Il divenire. E non si può aspirare ad un cambiamento vero senza voler rischiare qualcosa, anche tra quel che abbiamo di maggiormente caro e prezioso, tra quei punti di riferimento confusi con dogmi da cui spesso ci lasciamo dominare compiacenti.
Quindi in questo modo, a ben guardare, che cos'è il viaggio se non una semplice scommessa?
Io, se la posta in gioco è così alta, non posso fare a meno di puntare ancora.
...Continua?

lunedì 17 maggio 2010

Cuore nerazzurro


E com'è dolce il sapore della Vittoria.
...Continua?

domenica 18 aprile 2010

Un gioco da ragazzi


Era cominciato tutto così, per gioco, con una scommessa tra ragazzi un sabato pomeriggio.
Era un'estate degli anni novanta, avevano diciotto anni e gli ultimi giorni di un Agosto rovente davanti a loro.
Sergio non era mai stato un tipo particolarmente coraggioso o spavaldo ma Vincenzo non gli era mai piaciuto. Lo irritava anzi. Era infatti il prototipo del diciottenne arrogante e non esitava mai a sfottere chiunque si trovasse in una qualsiasi difficoltà. Del resto adorava se stesso e si riteneva il massimo che si potesse trovare in circolazione.
Sergio era uscito con lui perché, del loro gruppo, erano gli unici a non essere partiti per il mare. Le strade del paese erano deserte, il calore si irradiava dal pavimento di granito della piazza.
A un tratto, mentre stavano seduti su una panchina all’ombra, Vincenzo aveva indicato la collina che dominava il paese, dicendo:
- Scommettiamo che una notte lì da solo non ci stai?
Sergio aveva tanta voglia di zittirlo che aveva raccolto immediatamente la sfida. In più i suoi genitori erano partiti per il fine settimana lasciandolo a casa da solo, il che avrebbe facilitato notevolmente le cose.
La casa abbandonata era da sempre una specie di mito nelle storie di paese. Era una vecchia villa cadente, divorata dalle sterpaglie e dalle piante cresciute selvaggiamente in quello che a suo tempo era stato il parco. Aveva forse un centinaio d'anni e dei fasti passati non era rimasta che la maestosità dell'edificio. Si diceva che tra quelle mura poco prima della guerra, il padrone di casa, forse un nobile decaduto, si fosse suicidato dopo aver avvelenato sua moglie e suoi due figlioletti. Pareva inoltre che alcune notti si potessero sentire le anime senza pace dei due bambini piangere in modo straziante.
In realtà non esistevano prove certe di quella strage (e meno ancora, ovviamente, della presenza di spiriti irrequieti). Era più una di quelle storie che gli anziani, dopo il terzo bicchiere di nero al tavolo del circolo, sono capaci di raccontare, giurando di aver visto ("con questi occhi!") i cadaveri ancora caldi stesi sulle piastrelle bianche del pavimento della cucina.
Tutto questo comunque, vero o no, era sempre bastato a Sergio, Vincenzo e agli altri per tenersi lontani dal vecchio rudere quando la luce del sole iniziava a calare.
Non che non ci fossero mai stati. Di giorno anzi, due o tre volte, armati di bastoni appositamente appuntiti, erano entrati al piano terra passando da una finestrella rotta. La porta principale infatti era stata chiusa, chissà quando e da chi, con un pesante catenaccio che non si era mia dati la pena di provare a forzare.
Non avevano trovato più che quattro mobili marci e puzzolenti di muffa, buttati su un pavimento (effettivamente di piastrelle, in cucina) incrostato di sporcizia. Al piano di sopra la stessa situazione, fatta eccezione per un baule pieno di vestiti da bambini divorati dalle tarme; erano abiti che facevano pensare a tempi lontani, forse anche a prima della guerra appunto. Quando avevano aperto la grossa cassa, spaccando la serratura, erano rimasti quasi delusi che non nascondesse almeno delle ossa umane.

Così, in quel pomeriggio afoso, si erano dati la mano e avevano scommesso diecimila lire che Sergio sarebbe scappato (oppure no) dalla villa prima dell'alba.
Alle otto di sera Sergio si era incamminato verso l'arrugginito cancello di ferro battuto. Vincenzo lo aspettava sorridendo beffardo, le mani dietro la schiena.
- Allora sei proprio sicuro? Guarda che a casa non puoi tornare poi. Le tue chiavi le hai date a me - gli fece tintinnare il mazzo lucente davanti al naso - se le vuoi devi prima pagare!
- Io dormo qui - rispose Sergio un po' irritato - e ti voglio trovare qua fuori domani mattina con il mio deca in mano!
- Convinto! Quando scappi, tra un'oretta, citofona pure da me. Ti aspetto.
- Fanculo.
Sergio si voltò senza aggiungere altro, si chinò e attraversò il cancello servendosi di un varco formato da due sbarre mancanti. Mentre camminava sul viale terroso che saliva verso la casa, si sforzava di apparire del tutto indifferente alla situazione. Sapeva che Vincenzo si stava divertendo un sacco e voleva fargli capire quanto avesse fatto male a sfidarlo in quel modo.
In breve si trovò davanti alla facciata principale. L'aggirò a sinistra per dirigersi verso la finestrella e, inoltrandosi tra la vegetazione, scomparve alla vista dell'amico.
Sergio si guardava intorno sconsolato. Non era ancora buio ma la luce, a quell'ora, calava con una certa velocità. Non era mai stato lì da solo e, a dispetto
dell'atteggiamento mostrato poco prima, stava considerando seriamente di scappare via e rassegnarsi a tirare fuori i soldi. Una cornacchia gridò tra gli alberi della boscaglia facendolo trasalire. Era in piedi davanti alla finestra aperta. Si era portato uno zaino con una bottiglia d'acqua, una torcia elettrica, una coperta e un grosso Opinel, sottratto dall'orto di suo nonno. Il coltello era sporco di terra e con la lama tutta sbeccata ma era ugualmente capace di infondergli un certo senso di sicurezza. Così lo estrasse dallo zaino e se lo infilò nella tasca anteriore dei jeans. Poi guardò il cielo che iniziava a tingersi di rosso e, facendosi coraggio, scavalcò il davanzale della finestra. Non gliel'avrebbe mai data vinta.
Una volta dentro attese che i suoi occhi si abituassero alla semioscurità. L'ultima volta che erano entrati nella casa era stato almeno un anno prima, l'estate precedente. Non ricordava più esattamente come fossero disposte le stanze. L'odore di muffa gli afferrò la gola come una mano artigliata. Tossì un paio di volte per riprendersi, poi fece due passi nella stanza che probabilmente era stata il salone. Il pavimento era coperto di lattine di birra accartocciate e cocci di vetro. I resti di un fuoco non troppo vecchio lo turbarono per un momento e sperò che a nessuno venisse in mente di andarsi ad ubriacare lì proprio quella sera.
Si spostò nella cucina, dove le famigerate piastrelle del pavimento gli fecero irrigidire i muscoli della schiena. Improvvisamente tutte le storie ripetute dai vecchi avvinazzati gli parvero molto più verosimili. Accese la torcia e la puntò a terra aspettandosi di trovare tracce di sangue. Tutto quello che illuminò fu uno spesso strato di polvere accompagnato da pezzi di intonaco caduti dal soffitto. Sospirò brevemente.
- Che coglione - si disse a bassa voce - dopo tanti anni non sarà rimasto più niente.
Si chiese se fosse prudente andare di sopra. Le altre volte, con i ragazzi, non ci aveva pensato ma il pavimento avrebbe potuto cedere sotto il suo peso. Comunque, dopo aver trovato le birre e i resti del falò, doveva accertarsi che nella casa non ci fosse nessun'altro o non avrebbe trovato il coraggio di restarci tutta la notte.
Così tornò nel salone, puntò il raggio giallo verso le scale e affrontò controvoglia il primo gradino. Il legno scricchiolava sotto le suole delle sue scarpe da ginnastica. Procedeva piano, fermandosi qualche secondo tra un passo e l'altro per percepire eventuali rumori. Via via che avanzava nella salita si convinceva di essere solo. Giunto in cima alle scale puntò la luce nel lungo corridoio davanti a sé. Si aprivano due porte per lato. Si ricordava che la prima a destra dava su un grande bagno dove era rimasta una grossa vasca che poggiava su delle zampe di leone dorate. La porta era aperta. Dentro la stanza non c'era niente, a parte una striscia di escrementi di topo sul fondo della vasca.
La stanza di fronte era probabilmente stata una camera da letto. Era completamente vuota. Sui muri qualcuno si era divertito a disegnare un uomo e una donna intenti ad accoppiarsi in una posizione improbabile. Sergio considerò che avrebbe saputo fare di meglio con una bomboletta a portata di mano.
Anche la seconda stanza a destra, dopo il bagno, era stata svuotata. Una decina di sacchi di calce erano stati impilati contro la parete di fronte alla porta.
L'ultima stanza a sinistra era quella in cui avevano trovato il baule con i vestiti. La porta era chiusa e Sergio lo giudicò strano. In più il ricordo degli abitini antichi di quei bambini, probabilmente uccisi, contribuì a inquietarlo.
Stava in piedi, a metà del corridoio rivolto verso il fondo, a fissare una finestra sprangata. Si avvicinò e attraverso le persiane chiuse vide che fuori si era ormai fatta notte. Un rumore al di là della porta chiusa lo gelò. Un rumore di passi. Si girò e si mise a correre verso le scale. Fece gli scalini tre alla volta ma sull'ultimo salto inciampò cadendo in modo scomposto. La torcia gli scivolò di mano e si spense rotolando sul pavimento. Sergio si ritrovò al buio ai piedi delle scale, con un ginocchio dolorante.
Si sollevò a fatica e, zoppicando, raggiunse l'angolo del salone di fronte alle scale. Mise una mano in tasca ed estrasse il coltello, lo aprì.
Tenendo la lama puntata davanti a sé guardava fisso la rampa di scale. Tremava convulsamente e non riusciva a distinguere che qualche sagoma nel buio. D'improvviso un cigolio venne dall'alto: una porta veniva aperta lentamente. Sergio era paralizzato dalla paura e dal dolore. Gli parve di sentire il pavimento del corridoio scricchiolare sotto dei passi incerti. Non riusciva a muoversi dal suo angolo né ad urlare.
Gli sembrò di avere della sabbia in gola. Gli sembrò che di sabbia bagnata fossero fatti i propri polpacci e che si sarebbero sfaldati se solo si fosse azzardato a muovere un passo.
Gli scricchiolii terminarono. Sergio guardava in cima alle scale. Indovinò la figura di un uomo. Immediatamente questo prese a correre verso il basso, come lui stesso aveva fatto poco prima. Sergio ebbe l'assurda sensazione che quello potesse vedere nel buio, che sapesse di lui nascosto in quell'angolo. Così, spinto dalla disperazione, gli si fece incontro brandendo il coltello. L'ombra salto dal penultimo gradino nella sua direzione emettendo un verso simile ad un urlo. Sergio raccolse tutte le sue forze in un colpo ed affondò la lama per l’intera lunghezza nel petto dello sconosciuto aggressore. L'uomo nel buio cadde sulla schiena praticamente all'istante, e dopo un rantolo rimase immobile.
Sergio era attonito. Si mosse senza capacitarsi di quanto stesse facendo. Strisciando rasente al muro si accucciò tastando il pavimento. Dopo qualche infinito secondo trovò la torcia. Sporgeva da sotto il corpo esanime. La recuperò. Non era rotta, la ghiera si era svitata. Dopo averla sistemata la luce riapparse quasi inaspettatamente, ferendogli gli occhi. La puntò riluttante sul corpo del suo aggressore. Il manico dell'Opinel sporgeva orrendamente dal pettorale sinistro. Una macchia scarlatta si era allargata attorno alla lama, sulla T-shirt chiara. Sergio ne aveva una uguale. Tutti quelli più o meno della sua età, che avevano fatto gli animatori al centro estivo del paese, ne avevano una. Era gialla, con la scritta blu nel mezzo "Estate Ragazzi". Invece più in alto, sempre in blu, c'era una scritto in piccolo il nome dell'animatore.
Sergio puntò la torcia sullo stomaco di quello a terra. Il sangue era arrivato ormai fino a lì, inzuppando quasi del tutto la maglietta. Il fascio di luce tremava senza ritegno. Fece un lungo respiro costringendosi a calmarsi. Si afferrò il polso destro con la mano sinistra e punto la luce sul manico del coltello. Poco sopra, persa in una pozzanghera di sangue, una scritta appena leggibile: "Vincenzo". Gli piombò sopra. Non respirava. Era morto.
Sergio si sentì svenire. Fece qualche passo indietro fino al muro e cominciò a singhiozzare. Aveva appena ucciso un ragazzo, un suo amico. Rimase rannicchiato in lacrime per molto tempo. La torcia, poggiata a terra, illuminava il volto inespressivo di Vincenzo, gli occhi spalancati.
Quando non riuscì più a piangere, sentendo gli occhi così gonfi da faticare ad aprirli, cominciò gradualmente a recuperare il controllo di sé. Cercò di riordinare le idee. Concluse che Vincenzo si fosse nascosto in casa arrampicandosi al piano di sopra, magari scalando un albero. Forse voleva spaventarlo per farlo scappare via e vincere la scommessa.
Il primo impulso fu quello di correre fuori e andare alla caserma dei carabinieri per raccontare tutto.
Poi pensò al diploma, ai progetti per l'università. Pensò al futuro. Si vide costretto in una cella di tre metri per due, un giorno dopo l'altro, a condividere il letto a castello con un qualche violentatore psicopatico. Anche se involontariamente, aveva pur sempre ammazzato una persona.
Spense la torcia. Doveva concentrarsi senza che quella faccia lo guardasse
giudicandolo.
Iniziò a camminare in cerchio, a un passo dal cadavere, sempre più nervoso, riluttante all'idea che a poco a poco gli stava annebbiando la mente. Cominciò a parlare sommessamente a se stesso.
- Comunque se l'è cercata. Venire a farmi uno scherzo così, qui dentro poi...
- ... Ed è sempre stato uno stronzo. Ha sempre trattato tutti male. Alla fine non eravamo nemmeno veri amici... Anzi non lo sopportavo proprio.
Andò avanti così, nel buio completo, per un'ora buona. Poi guardò l'orologio al polso. Erano le quattro, di lì a poco sarebbe stato giorno. Non c'era altro tempo da perdere.
Accese la torcia ed inquadrò il cadavere a terra. Si accosciò e fissò il manico di legno marroncino che sporgeva dalla carne. Lo afferrò con la mano destra e lo tirò con poca convinzione. Il coltello si mosse di qualche millimetro ma non venne fuori. Così prese a girarlo mentre lo strattonava con forza sempre maggiore. Un po’ alla volta l’acciaio scivolò fuori, stridendo contro le coste. Sergio riuscì infine ad estrarre l’arma del tutto. La mise davanti alla torcia, all’altezza del suo naso: il metallo non era più incrostato di terra. Era quasi lucido, leggermente nascosto da un viscoso alone di porpora. Passò la lama su una spalla di Vincenzo in un verso e nell’altro. Così asciugato richiuse il coltello e se lo infilò in tasca.
Si rialzò in piedi e fissò dall’alto la ferita. Più che altro la immaginò. La maglietta infatti si era così intrisa da sembrare nera e un debole fiotto di sangue era iniziato ad uscire dal punto in cui fino a poco prima era conficcato il coltello.
Sergio era più robusto di Vincenzo e giudicò di poterselo caricare facilmente sulle spalle. Lo sollevò dal pavimento senza provare alcuna emozione. Né aveva più male al ginocchio. L'adrenalina lo aveva rianimato, trasfigurato. Salì le scale senza troppa fatica, quasi correndo verso la stanza col baule, con la testa senza vita che gli ciondolava sulla schiena. La porta era socchiusa e la spalancò con un calcio. La finestra di fronte sbatteva nel vento anche se le persiane erano chiuse. Era proprio entrato da lì.
Sergio si mosse sicuro verso il baule. La serratura era rotta, come l'avevano lasciata un anno prima. Poggiò il corpo sul pavimento. Aprì il baule e lo vuotò completamente tirando fuori alla rinfusa i vestitini polverosi. Recuperò il cadavere e lo adagiò con cautela sul fondo della cassa. Si alzò in piedi per riprendere fiato. Uscì nel corridoio e corse a recuperare uno dei sacchi di calce che aveva notato ormai quasi due ore prima. Tornò al baule e svuotò il sacchetto ricoprendo il corpo, sul quale il sangue aveva cominciato a rapprendersi. Sollevò la testa di Vincenzo pensando ad un’anguria, e la infilò nel sacchetto vuoto che gli era rimasto in mano. Poi un flash gli attraverso la mente. Prese a frugargli affannosamente nelle tasche. Stava iniziando a preoccuparsi quando sentì sotto le dita il freddo metallo delle sue chiavi di casa. Estrasse il mazzo e lo mise nello zaino.
Rimase fermo a pensare per un momento. Poi rivoltò il morto su un fianco e gli tolse il portafoglio da una tasca posteriore. Lo aprì, prese quello che cercava e lo richiuse delicatamente rimettendolo al suo posto.
Quindi raccolse tutti vestitini da terra e li gettò in fretta nel baule fino a che il macabro contenuto divenne invisibile. Richiuse il coperchio e restò per un attimo in piedi, al centro della stanza, a guardarlo.
Scese al piano inferiore e spense la torcia. Erano ormai le quattro e mezza e l'alba si avvicinava rischiarando il cielo di un timido azzurro. Prima di attraversare la cancellata controllò che in giro non ci fosse nessuno. Deserto.
Giunto a casa andò in camera sua e prese la vecchia bibbia dalla libreria. La aprì guardando le diecimila lire incastrate tra due pagine. Poi si mise una mano in tasca ed estrasse un'altra banconota uguale a quella ma accartocciata. La guardò controluce. Era sporca di calce, la soffiò via. La mise sotto l'altra e ripose il libro.
Si avvicino alla finestra da dove, in lontananza, si intravedeva la villa sulla collina e sussurrò:
- Scommettiamo quante notti lì da solo resterai?
…Continua?

domenica 14 febbraio 2010

Importa resistere


E tutto è un'attesa, un affanno, una caduta. Treni, tram, code, smog, esami, libretti, documenti, lavori e sabato e domenica e poi sempre da capo. Ancora e ancora fino a sputare il sangue, fino a crepare davanti alla televisione. Fino a che, chissà fino a che...
No. Sarà un treno, un aereo, una striscia d'asfalto. La neve o il deserto e acque gelide e onde salate, sotto un altro vento. Sotto altri pensieri.
...Continua?