domenica 18 aprile 2010

Un gioco da ragazzi


Era cominciato tutto così, per gioco, con una scommessa tra ragazzi un sabato pomeriggio.
Era un'estate degli anni novanta, avevano diciotto anni e gli ultimi giorni di un Agosto rovente davanti a loro.
Sergio non era mai stato un tipo particolarmente coraggioso o spavaldo ma Vincenzo non gli era mai piaciuto. Lo irritava anzi. Era infatti il prototipo del diciottenne arrogante e non esitava mai a sfottere chiunque si trovasse in una qualsiasi difficoltà. Del resto adorava se stesso e si riteneva il massimo che si potesse trovare in circolazione.
Sergio era uscito con lui perché, del loro gruppo, erano gli unici a non essere partiti per il mare. Le strade del paese erano deserte, il calore si irradiava dal pavimento di granito della piazza.
A un tratto, mentre stavano seduti su una panchina all’ombra, Vincenzo aveva indicato la collina che dominava il paese, dicendo:
- Scommettiamo che una notte lì da solo non ci stai?
Sergio aveva tanta voglia di zittirlo che aveva raccolto immediatamente la sfida. In più i suoi genitori erano partiti per il fine settimana lasciandolo a casa da solo, il che avrebbe facilitato notevolmente le cose.
La casa abbandonata era da sempre una specie di mito nelle storie di paese. Era una vecchia villa cadente, divorata dalle sterpaglie e dalle piante cresciute selvaggiamente in quello che a suo tempo era stato il parco. Aveva forse un centinaio d'anni e dei fasti passati non era rimasta che la maestosità dell'edificio. Si diceva che tra quelle mura poco prima della guerra, il padrone di casa, forse un nobile decaduto, si fosse suicidato dopo aver avvelenato sua moglie e suoi due figlioletti. Pareva inoltre che alcune notti si potessero sentire le anime senza pace dei due bambini piangere in modo straziante.
In realtà non esistevano prove certe di quella strage (e meno ancora, ovviamente, della presenza di spiriti irrequieti). Era più una di quelle storie che gli anziani, dopo il terzo bicchiere di nero al tavolo del circolo, sono capaci di raccontare, giurando di aver visto ("con questi occhi!") i cadaveri ancora caldi stesi sulle piastrelle bianche del pavimento della cucina.
Tutto questo comunque, vero o no, era sempre bastato a Sergio, Vincenzo e agli altri per tenersi lontani dal vecchio rudere quando la luce del sole iniziava a calare.
Non che non ci fossero mai stati. Di giorno anzi, due o tre volte, armati di bastoni appositamente appuntiti, erano entrati al piano terra passando da una finestrella rotta. La porta principale infatti era stata chiusa, chissà quando e da chi, con un pesante catenaccio che non si era mia dati la pena di provare a forzare.
Non avevano trovato più che quattro mobili marci e puzzolenti di muffa, buttati su un pavimento (effettivamente di piastrelle, in cucina) incrostato di sporcizia. Al piano di sopra la stessa situazione, fatta eccezione per un baule pieno di vestiti da bambini divorati dalle tarme; erano abiti che facevano pensare a tempi lontani, forse anche a prima della guerra appunto. Quando avevano aperto la grossa cassa, spaccando la serratura, erano rimasti quasi delusi che non nascondesse almeno delle ossa umane.

Così, in quel pomeriggio afoso, si erano dati la mano e avevano scommesso diecimila lire che Sergio sarebbe scappato (oppure no) dalla villa prima dell'alba.
Alle otto di sera Sergio si era incamminato verso l'arrugginito cancello di ferro battuto. Vincenzo lo aspettava sorridendo beffardo, le mani dietro la schiena.
- Allora sei proprio sicuro? Guarda che a casa non puoi tornare poi. Le tue chiavi le hai date a me - gli fece tintinnare il mazzo lucente davanti al naso - se le vuoi devi prima pagare!
- Io dormo qui - rispose Sergio un po' irritato - e ti voglio trovare qua fuori domani mattina con il mio deca in mano!
- Convinto! Quando scappi, tra un'oretta, citofona pure da me. Ti aspetto.
- Fanculo.
Sergio si voltò senza aggiungere altro, si chinò e attraversò il cancello servendosi di un varco formato da due sbarre mancanti. Mentre camminava sul viale terroso che saliva verso la casa, si sforzava di apparire del tutto indifferente alla situazione. Sapeva che Vincenzo si stava divertendo un sacco e voleva fargli capire quanto avesse fatto male a sfidarlo in quel modo.
In breve si trovò davanti alla facciata principale. L'aggirò a sinistra per dirigersi verso la finestrella e, inoltrandosi tra la vegetazione, scomparve alla vista dell'amico.
Sergio si guardava intorno sconsolato. Non era ancora buio ma la luce, a quell'ora, calava con una certa velocità. Non era mai stato lì da solo e, a dispetto
dell'atteggiamento mostrato poco prima, stava considerando seriamente di scappare via e rassegnarsi a tirare fuori i soldi. Una cornacchia gridò tra gli alberi della boscaglia facendolo trasalire. Era in piedi davanti alla finestra aperta. Si era portato uno zaino con una bottiglia d'acqua, una torcia elettrica, una coperta e un grosso Opinel, sottratto dall'orto di suo nonno. Il coltello era sporco di terra e con la lama tutta sbeccata ma era ugualmente capace di infondergli un certo senso di sicurezza. Così lo estrasse dallo zaino e se lo infilò nella tasca anteriore dei jeans. Poi guardò il cielo che iniziava a tingersi di rosso e, facendosi coraggio, scavalcò il davanzale della finestra. Non gliel'avrebbe mai data vinta.
Una volta dentro attese che i suoi occhi si abituassero alla semioscurità. L'ultima volta che erano entrati nella casa era stato almeno un anno prima, l'estate precedente. Non ricordava più esattamente come fossero disposte le stanze. L'odore di muffa gli afferrò la gola come una mano artigliata. Tossì un paio di volte per riprendersi, poi fece due passi nella stanza che probabilmente era stata il salone. Il pavimento era coperto di lattine di birra accartocciate e cocci di vetro. I resti di un fuoco non troppo vecchio lo turbarono per un momento e sperò che a nessuno venisse in mente di andarsi ad ubriacare lì proprio quella sera.
Si spostò nella cucina, dove le famigerate piastrelle del pavimento gli fecero irrigidire i muscoli della schiena. Improvvisamente tutte le storie ripetute dai vecchi avvinazzati gli parvero molto più verosimili. Accese la torcia e la puntò a terra aspettandosi di trovare tracce di sangue. Tutto quello che illuminò fu uno spesso strato di polvere accompagnato da pezzi di intonaco caduti dal soffitto. Sospirò brevemente.
- Che coglione - si disse a bassa voce - dopo tanti anni non sarà rimasto più niente.
Si chiese se fosse prudente andare di sopra. Le altre volte, con i ragazzi, non ci aveva pensato ma il pavimento avrebbe potuto cedere sotto il suo peso. Comunque, dopo aver trovato le birre e i resti del falò, doveva accertarsi che nella casa non ci fosse nessun'altro o non avrebbe trovato il coraggio di restarci tutta la notte.
Così tornò nel salone, puntò il raggio giallo verso le scale e affrontò controvoglia il primo gradino. Il legno scricchiolava sotto le suole delle sue scarpe da ginnastica. Procedeva piano, fermandosi qualche secondo tra un passo e l'altro per percepire eventuali rumori. Via via che avanzava nella salita si convinceva di essere solo. Giunto in cima alle scale puntò la luce nel lungo corridoio davanti a sé. Si aprivano due porte per lato. Si ricordava che la prima a destra dava su un grande bagno dove era rimasta una grossa vasca che poggiava su delle zampe di leone dorate. La porta era aperta. Dentro la stanza non c'era niente, a parte una striscia di escrementi di topo sul fondo della vasca.
La stanza di fronte era probabilmente stata una camera da letto. Era completamente vuota. Sui muri qualcuno si era divertito a disegnare un uomo e una donna intenti ad accoppiarsi in una posizione improbabile. Sergio considerò che avrebbe saputo fare di meglio con una bomboletta a portata di mano.
Anche la seconda stanza a destra, dopo il bagno, era stata svuotata. Una decina di sacchi di calce erano stati impilati contro la parete di fronte alla porta.
L'ultima stanza a sinistra era quella in cui avevano trovato il baule con i vestiti. La porta era chiusa e Sergio lo giudicò strano. In più il ricordo degli abitini antichi di quei bambini, probabilmente uccisi, contribuì a inquietarlo.
Stava in piedi, a metà del corridoio rivolto verso il fondo, a fissare una finestra sprangata. Si avvicinò e attraverso le persiane chiuse vide che fuori si era ormai fatta notte. Un rumore al di là della porta chiusa lo gelò. Un rumore di passi. Si girò e si mise a correre verso le scale. Fece gli scalini tre alla volta ma sull'ultimo salto inciampò cadendo in modo scomposto. La torcia gli scivolò di mano e si spense rotolando sul pavimento. Sergio si ritrovò al buio ai piedi delle scale, con un ginocchio dolorante.
Si sollevò a fatica e, zoppicando, raggiunse l'angolo del salone di fronte alle scale. Mise una mano in tasca ed estrasse il coltello, lo aprì.
Tenendo la lama puntata davanti a sé guardava fisso la rampa di scale. Tremava convulsamente e non riusciva a distinguere che qualche sagoma nel buio. D'improvviso un cigolio venne dall'alto: una porta veniva aperta lentamente. Sergio era paralizzato dalla paura e dal dolore. Gli parve di sentire il pavimento del corridoio scricchiolare sotto dei passi incerti. Non riusciva a muoversi dal suo angolo né ad urlare.
Gli sembrò di avere della sabbia in gola. Gli sembrò che di sabbia bagnata fossero fatti i propri polpacci e che si sarebbero sfaldati se solo si fosse azzardato a muovere un passo.
Gli scricchiolii terminarono. Sergio guardava in cima alle scale. Indovinò la figura di un uomo. Immediatamente questo prese a correre verso il basso, come lui stesso aveva fatto poco prima. Sergio ebbe l'assurda sensazione che quello potesse vedere nel buio, che sapesse di lui nascosto in quell'angolo. Così, spinto dalla disperazione, gli si fece incontro brandendo il coltello. L'ombra salto dal penultimo gradino nella sua direzione emettendo un verso simile ad un urlo. Sergio raccolse tutte le sue forze in un colpo ed affondò la lama per l’intera lunghezza nel petto dello sconosciuto aggressore. L'uomo nel buio cadde sulla schiena praticamente all'istante, e dopo un rantolo rimase immobile.
Sergio era attonito. Si mosse senza capacitarsi di quanto stesse facendo. Strisciando rasente al muro si accucciò tastando il pavimento. Dopo qualche infinito secondo trovò la torcia. Sporgeva da sotto il corpo esanime. La recuperò. Non era rotta, la ghiera si era svitata. Dopo averla sistemata la luce riapparse quasi inaspettatamente, ferendogli gli occhi. La puntò riluttante sul corpo del suo aggressore. Il manico dell'Opinel sporgeva orrendamente dal pettorale sinistro. Una macchia scarlatta si era allargata attorno alla lama, sulla T-shirt chiara. Sergio ne aveva una uguale. Tutti quelli più o meno della sua età, che avevano fatto gli animatori al centro estivo del paese, ne avevano una. Era gialla, con la scritta blu nel mezzo "Estate Ragazzi". Invece più in alto, sempre in blu, c'era una scritto in piccolo il nome dell'animatore.
Sergio puntò la torcia sullo stomaco di quello a terra. Il sangue era arrivato ormai fino a lì, inzuppando quasi del tutto la maglietta. Il fascio di luce tremava senza ritegno. Fece un lungo respiro costringendosi a calmarsi. Si afferrò il polso destro con la mano sinistra e punto la luce sul manico del coltello. Poco sopra, persa in una pozzanghera di sangue, una scritta appena leggibile: "Vincenzo". Gli piombò sopra. Non respirava. Era morto.
Sergio si sentì svenire. Fece qualche passo indietro fino al muro e cominciò a singhiozzare. Aveva appena ucciso un ragazzo, un suo amico. Rimase rannicchiato in lacrime per molto tempo. La torcia, poggiata a terra, illuminava il volto inespressivo di Vincenzo, gli occhi spalancati.
Quando non riuscì più a piangere, sentendo gli occhi così gonfi da faticare ad aprirli, cominciò gradualmente a recuperare il controllo di sé. Cercò di riordinare le idee. Concluse che Vincenzo si fosse nascosto in casa arrampicandosi al piano di sopra, magari scalando un albero. Forse voleva spaventarlo per farlo scappare via e vincere la scommessa.
Il primo impulso fu quello di correre fuori e andare alla caserma dei carabinieri per raccontare tutto.
Poi pensò al diploma, ai progetti per l'università. Pensò al futuro. Si vide costretto in una cella di tre metri per due, un giorno dopo l'altro, a condividere il letto a castello con un qualche violentatore psicopatico. Anche se involontariamente, aveva pur sempre ammazzato una persona.
Spense la torcia. Doveva concentrarsi senza che quella faccia lo guardasse
giudicandolo.
Iniziò a camminare in cerchio, a un passo dal cadavere, sempre più nervoso, riluttante all'idea che a poco a poco gli stava annebbiando la mente. Cominciò a parlare sommessamente a se stesso.
- Comunque se l'è cercata. Venire a farmi uno scherzo così, qui dentro poi...
- ... Ed è sempre stato uno stronzo. Ha sempre trattato tutti male. Alla fine non eravamo nemmeno veri amici... Anzi non lo sopportavo proprio.
Andò avanti così, nel buio completo, per un'ora buona. Poi guardò l'orologio al polso. Erano le quattro, di lì a poco sarebbe stato giorno. Non c'era altro tempo da perdere.
Accese la torcia ed inquadrò il cadavere a terra. Si accosciò e fissò il manico di legno marroncino che sporgeva dalla carne. Lo afferrò con la mano destra e lo tirò con poca convinzione. Il coltello si mosse di qualche millimetro ma non venne fuori. Così prese a girarlo mentre lo strattonava con forza sempre maggiore. Un po’ alla volta l’acciaio scivolò fuori, stridendo contro le coste. Sergio riuscì infine ad estrarre l’arma del tutto. La mise davanti alla torcia, all’altezza del suo naso: il metallo non era più incrostato di terra. Era quasi lucido, leggermente nascosto da un viscoso alone di porpora. Passò la lama su una spalla di Vincenzo in un verso e nell’altro. Così asciugato richiuse il coltello e se lo infilò in tasca.
Si rialzò in piedi e fissò dall’alto la ferita. Più che altro la immaginò. La maglietta infatti si era così intrisa da sembrare nera e un debole fiotto di sangue era iniziato ad uscire dal punto in cui fino a poco prima era conficcato il coltello.
Sergio era più robusto di Vincenzo e giudicò di poterselo caricare facilmente sulle spalle. Lo sollevò dal pavimento senza provare alcuna emozione. Né aveva più male al ginocchio. L'adrenalina lo aveva rianimato, trasfigurato. Salì le scale senza troppa fatica, quasi correndo verso la stanza col baule, con la testa senza vita che gli ciondolava sulla schiena. La porta era socchiusa e la spalancò con un calcio. La finestra di fronte sbatteva nel vento anche se le persiane erano chiuse. Era proprio entrato da lì.
Sergio si mosse sicuro verso il baule. La serratura era rotta, come l'avevano lasciata un anno prima. Poggiò il corpo sul pavimento. Aprì il baule e lo vuotò completamente tirando fuori alla rinfusa i vestitini polverosi. Recuperò il cadavere e lo adagiò con cautela sul fondo della cassa. Si alzò in piedi per riprendere fiato. Uscì nel corridoio e corse a recuperare uno dei sacchi di calce che aveva notato ormai quasi due ore prima. Tornò al baule e svuotò il sacchetto ricoprendo il corpo, sul quale il sangue aveva cominciato a rapprendersi. Sollevò la testa di Vincenzo pensando ad un’anguria, e la infilò nel sacchetto vuoto che gli era rimasto in mano. Poi un flash gli attraverso la mente. Prese a frugargli affannosamente nelle tasche. Stava iniziando a preoccuparsi quando sentì sotto le dita il freddo metallo delle sue chiavi di casa. Estrasse il mazzo e lo mise nello zaino.
Rimase fermo a pensare per un momento. Poi rivoltò il morto su un fianco e gli tolse il portafoglio da una tasca posteriore. Lo aprì, prese quello che cercava e lo richiuse delicatamente rimettendolo al suo posto.
Quindi raccolse tutti vestitini da terra e li gettò in fretta nel baule fino a che il macabro contenuto divenne invisibile. Richiuse il coperchio e restò per un attimo in piedi, al centro della stanza, a guardarlo.
Scese al piano inferiore e spense la torcia. Erano ormai le quattro e mezza e l'alba si avvicinava rischiarando il cielo di un timido azzurro. Prima di attraversare la cancellata controllò che in giro non ci fosse nessuno. Deserto.
Giunto a casa andò in camera sua e prese la vecchia bibbia dalla libreria. La aprì guardando le diecimila lire incastrate tra due pagine. Poi si mise una mano in tasca ed estrasse un'altra banconota uguale a quella ma accartocciata. La guardò controluce. Era sporca di calce, la soffiò via. La mise sotto l'altra e ripose il libro.
Si avvicino alla finestra da dove, in lontananza, si intravedeva la villa sulla collina e sussurrò:
- Scommettiamo quante notti lì da solo resterai?
…Continua?