venerdì 14 ottobre 2011

Storia di nessuno


Da settimane ci stava pensando. Praticamente aveva deciso.
Aveva quarantatré anni e un'esistenza piatta.
Non aveva subito maltrattamenti da piccolo e non ricordava particolari traumi. Ma nemmeno particolari gioie.
Viveva in una cittadina del nordovest dimenticata dall'universo. Era lo specchio della sua esistenza: noiosa, ordinata, ripetitiva. Quell'angolo di mondo non veniva mai citato nei tg, né preso in considerazione dalla stampa nazionale. Semplicemente perché non succedeva mai nulla.
E forse, si diceva a volte, i suoi giorni erano così patetici anche perché si perdevano in quel posto tanto scialbo, in un penoso stillicidio.
Era figlio unico. I suoi genitori avevano avuto almeno la pietà di non creare altri buchi neri come lui. I suoi vecchi erano stati operai, nella stessa fabbrica, per quaranta lunghi anni. In altri casi si direbbe "per la parte migliore della loro vita". Ma non in questo caso.
Aveva sempre vissuto i suoi genitori come i due capi della linea piatta d'uno stesso encefalogramma. Li vedeva emergere nei suoi ricordi come da una poltiglia informe in una serie di diverse sfumature di grigio.
Una volta andati in pensione la loro vita non era certo stata più vivace che in precedenza. E poi, una sera di novembre, rincasando dal discount con la spesa nel bagagliaio, un autobus di linea li aveva semplicemente travolti.
Erano morti sul colpo, aveva detto quel carabiniere, forse per confortarlo. Come facesse lui a saperlo era una cosa che non si era dato il disturbo di spiegare.
E comunque non aveva pianto. Certo erano stati i suoi genitori, la cosa più simile che avesse mai avuto ad una relazione umana... Ma l'affetto che ricordava nelle mamme e nei papà degli altri bambini, quando ancora andava a scuola, quello non li aveva mai neppure sfiorati.
E così non gli era servito che qualcuno lo consolasse nell'ora più buia. Del resto, se non fosse stato per quel paio di colleghi e per la vicina di casa dei genitori, si sarebbe trovato semplicemente da solo nella piccola chiesa, di fronte alle bare scure.

Non aveva mai sofferto sul serio di solitudine. Probabilmente perché non aveva mai avuto un vero rapporto affettivo.
La settimana seguente all'esame di maturità era stato assunto come contabile in un'azienda di spedizioni. Un mese dopo, con i soldi del primo stipendio, aveva lasciato la casa dei genitori; aveva preso in affitto un monolocale ammobiliato a dieci minuti a piedi dal posto di lavoro.
Era sempre stato timido, introverso. E in quella bolla surreale aveva finito per accentuare, affinare la sua misantropia.
In realtà non aveva mai provato vero odio o sfiducia nei confronti di un'altra persona. Solo un senso di protratto e costante vuoto che finiva inevitabilmente per rimbalzargli (moltiplicato) addosso.

Aveva letto diverse volte sui giornali locali di suicidi avvenuti per questo o quel motivo.
Molte volte succedeva per disperazione: alcuni non erano riusciti a superare un grave lutto, altri avevano sperperato un patrimonio al gioco, altri ancora avevano contratto forti debiti con le persone sbagliate e la paura aveva fatto il resto.
Ma la sola cosa che lui avesse mai perso erano stati i genitori e non si era sentito di definirlo un vero e proprio lutto. Inoltre in banca aveva una discreta somma: la sua unica spesa era l'affitto mensile dell'appartamento in cui viveva. Non aveva nemmeno un'automobile.
In tv poi aveva sentito parlare di "suicidio indotto da depressione". Perciò si era documentato: era stato in biblioteca e, dopo un'attenta ricerca, aveva risolto di non avere nessun sintomo. Non era depresso.
Sentiva però il bisogno di una giustificazione. Una sua lontana zia, gli pareva di ricordare, si era tagliata le vene in un bagno caldo, dopo aver appreso di essere affetta da un cancro ormai incurabile. Dunque si era sottoposto ad un check up completo, approfondito. Era risultato fisicamente perfetto.
Perciò, esasperato, si era infine detto che il suo sarebbe stato il primo suicidio per indifferenza.
Non tanto l'indifferenza irrimediabilmente reciproca che provava verso il mondo. Quanto quella, ben più gravemente sedimentata, rispetto a se stesso.

Una sera di novembre, probabilmente non l'anniversario della morte dei suoi genitori (ma avrebbe anche potuto esserlo, ché lui non lo ricordava più), si avviò a piedi verso il borgo storico, nella parte alta della città.
La fredda umidità dell'ora di cena era la sola presenza a calpestare insieme a lui le strade di pietra luccicante. Entrò nel vecchio campanile semplicemente spingendo la porta di legno marcio per poi riaccostarsela alle spalle. Salì i gradini al buio, uno alla volta, ascoltando il proprio respiro crescere nell'ombra. Giunto in cima si trovò di fronte un'apertura arcuata nella parete: mentre scavalcava la bassa inferriata non si diede nemmeno la pena di uno sguardo alla città illuminata, più in basso. Si lasciò cadere nel vuoto, senza gridare.
Lo trovò il sacrestano la mattina dopo, uscendo all'alba per la sua consueta passeggiata da insonne. La testa spappolata sul selciato, il collo ad un'angolazione grottesca.
Quella sera, finalmente, il tg regionale si occupò della cittadina abitualmente trascurata: l'annunciatrice lesse due righe di venti parole a proposito del tragico evento, poi diede la linea al meteo.
...Continua?

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